Difficilmente un fan
di Bob Dylan riesce a spiegare il vero motivo della sua passione. Bob
non è un vero talento né come cantante né come chitarrista. Non è
facile, non risulta simpatico, non è comunicativo né sul palco né
fuori. Non compiace il pubblico, ama spiazzare il prossimo, non si
preoccupa di deludere. Chi lo ascolta, lo legge, lo vede dal vivo, di
solito sintetizza la propria appartenenza al Dylan-people in un unico
modo: "E’ un genio". E un genio non necessariamente viene
idolatrato o acclamato: lo si segue, lo si rispetta, in un certo senso
lo si adotta. Ma al di là del genio nello scrivere canzoni e nel saper
nutrire con rari compromessi il proprio mito tuttora immune dal tempo (ha
compiuto 60 anni il 24 maggio 2001), Dylan è soprattutto un Grande
Seduttore: la sua musica, i testi, il modo inconfondibile e poco
ortodosso di porgerli, perfino quella strana, indecifrabile faccia, sono
reti in cui è facile restare fatalmente impigliati e da cui non è
prevista una via d’uscita.
Alessandro Carrera, lodigiano, 47 anni e un passato di
musicista-cantante, negli States dall’87, oggi austero docente di
letteratura italiana alla New York University, dal Grande Seduttore è
"stato preso all’amo, messo in ceppi, legato mani e piedi"
quando ne aveva soltanto 16. Gli è bastato ascoltare da un 45 giri
l’arpeggio iniziale di Mr. Tambourine Man per provare "il primo
vero brivido giù per la schiena" che, coltivato e amplificato nel
tempo, lo ha indotto a scrivere questo La voce di Bob Dylan - Una
spiegazione dell’America . Non l’ennesimo omaggio al mito raccontato
soltanto con il cuore, ma un accurato studio che con una bibliografia
sterminata e un coro famoso sullo sfondo (da Jack Nicholson a Woody
Guthrie, da Eric Clapton a Gregory Corso, da Bono a Jack Kerouac),
spiega un personaggio complesso, le sue radici, le sue ossessioni
religiose, il suo essere americano. Arrivando a concludere che, così
come un’autentica femme fatale , il Grande Seduttore attrae per il suo
muoversi costantemente nel mistero, per la capacità di meravigliare, di
rivelarsi diverso da quello che si vorrebbe, di giocare a nascondersi.
Sia nella vita sia sul palco, dove Bob ama camuffare i suoi pezzi
classici a periodi alterni con ermetici arrangiamenti che disorientano
anche i fedeli della prima ora.
Proprio Mr. Tambourine Man , la canzone "dell’incantamento",
rappresenta un piccolo esempio di quell’incertezza intrigante che ha
consentito a Dylan di sedurre diverse generazioni. "I miei sensi
sono denudati, le mie mani non sentono la presa / i piedi insensibili
per camminare, aspettano soltanto che i tacchi incomincino a
vagare", si legge nel testo. Per qualcuno quel Tamburino
simboleggiava uno spacciatore visto sotto gli effetti della droga. In
realtà, ci racconta l’autore del saggio, l’ispirazione del
tamburino è dovuta probabilmente in modo più innocuo
all’innamoramento per la Gelsomina di Giulietta Masina nel felliniano
La strada , film ammirato dal cantante in un cinema del Village. Un
esile filo italiano che certo non scalfisce l’assoluta americanità di
Bob, da lui mai messa in discussione nemmeno nei momenti acuti della
contestazione, nonostante la fama, mai veramente giustificata, di
ribelle, pacifista e impegnato in politica. Mentre è sempre stato
essenzialmente un anticonformista. "Dylan - racconta Carrera - non
è Ginsberg, non punta il dito né contro la Cia né contro il
Pentagono. Negli anni ’60 molti hanno provato, ma invano, a fargli
pronunciare la parola "Vietnam". E quando si è trattato della
sicurezza d’Israele non ha avuto problemi ad approvare il
bombardamento d’una fabbrica irachena di armi".
Dylan è molto a disagio quando deve distinguere fra destra e sinistra e
l’anima della sua poesia è più incline a cogliere e a rivisitare le
tradizioni della terra americana, del folclore in cui innesta pure rami
neri di gospel e blues, che a porsi come antagonista del sistema. Con la
politica insomma non ci piglia molto e il libro ricorda pure la sua
clamorosa gaffe nel ’63 quando parlando all’assemblea d’un
comitato liberal sull’assassinio di John Kennedy, s’identifica a tal
punto (pur senza giustificarlo) con l’assassino Lee Oswald, da creare
rumorosi disordini.
Come il suo grande Paese è profondamente contraddittorio ma nessuno
glielo mette in debito, perché come dice Carrera "Dylan non è più
un semplice artista ma una geografia, un universo semeiotico,
un’infinita partita a scacchi tra la parola e la voce" che non si
cura affatto di avere consensi. Il music-business di oggi lo guarda con
diffidenza per due presunti torti: non essere morto più giovane e con
modalità "maledette" alla maniera di Jimi Hendrix o Janis
Joplin e non andare in tv a raccontare, lo fanno tanti patetici
sopravvissuti, le storie dei loro amori e delle disintossicazioni da
alcol e stupefacenti.
Il saggio si conclude parlando di Dylan come d’un uomo profondamente
solo perché l’artista americano è spesso un grande isolato,
prigioniero d’una società "che aspira a essere più semplice e
più nobile di quanto sia umanamente possibile, che vorrebbe negare il
tragico e bandire dalla discussione pubblica i problemi di cui non si può
trattare in un talk-show". Anche per questo i cultori di Dylan,
soprattutto quelli che seguono le sue orme da lontano, non potranno mai
più ritornare indietro.
Gian Luigi Paracchini ("Corriere della Sera")
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