A CIDADE TEMPLARIA
O Tomar!
de tomar
a nossa vida
te veio o desejo
e nos tive
a bonita esperança
de sempre ficar contigo.
Agora t'escrevo,
depois te falarei.
COIMBRA
e um cao quase todo
preto apareceu
sobre os dois degraus
da igreja,
na alma portuguesa
que subia
do rio.
ORIZZONTALI
Ho immaginato di carezzare dio che, però, non voleva farsi riconoscere.
Ti rivedevo ora che non potevi più andare via.
I suoni e le parole ti venivano dietro simili ai nostri fantasmi.
E nessuno ti vede, seppur ti avvicini.
Il viso le mani, il desiderio.
Tutte quelle volte sono state simili a un'unica volta.
Nel giro dei tronchi riapparivinvisibile.
Dirinuovunsaluto esiportavavia una parte dell'anima mia.
Oh, se tu fossi più di una compagna in questo desertoditope.
Iofuifugace néllavèlicaàrma.
O simile A volte Non erano
a puledra le donne in fila
ch'io vidi sono quelle i quattro lampioni
nei prati, della sera vicino alla tua casa,
desideroso e invece a Trieste dove anche i
di portarla via, una mona tuoi capelli
mi dici brilla si dividevano
il tuo nome? sulla luce di un faro. su un cuscino
inquinato
dal desiderio
di un altro.
LEFT
Una sera di molto tempo fa ero su un autobus al capolinea di piazza Mastai, in Trastevere, proprio di fronte a una lapide che ricorda Apollinaire, poeta trasteverino-francese. Sullo stesso mezzo pubblico era un gruppetto di ragazze e ragazzi di Roma che, nell'attesa della partenza, parlavano con un altro ragazzo che veniva dalla Francia e diceva: " E' bene di sapere le vie di Parigi." E così, anche stavolta, mi accorsi di come molti stranieri, pur essendo in grado di dire e capire molte parole italiane, usano impropriamente o male i verbi all'infinito, e adottano la paroletta "di" come se fosse una preposizione universale, buona in ogni caso. Invece l'infinito tante volte vale da sostantivo e, al più, si mette con un articolo: il bere, il sapere, il fare bene e così via. Del resto, anche un italiano deve allenarsi a scegliere in maniera corretta le preposizioni straniere, altrimenti in tedesco metterà sempre "zu", e in inglese "for", e in spagnolo e portoghese "por" al posto di "para" o in francese "pour" invece di "par", e viceversa.
Ma ciò che più mi piaceva delle lingue era la loro origine, perché si potevano immaginare gli antichissimi uomini che, a differenza degli altri animali (esseri dotati di "anima", cioè di movimento come l'aria), cominciavano ad articolare la bocca e la lingua per dare un nome, ossia una regola, a ogni cosa che vedevano. E perché ogni razza aveva dato un nome diverso? Sicuramente ciò dipendeva da una visione estetica della realtà, oltre che da ragioni pratiche, a volte molto dure a sopportarsi.
Dell'inglese, così bello e incisivo in tante occasioni: "insight" introspezione, "pace maker" che fa passare, "by night" di notte, avevo scoperto alcune parole che, citate come tipicamente anglo-sassoni, derivavano tuttavia dalla lingua dell'antica Roma: "manager" da "manibus agere", cioè "agire con le mani"; "car" da "carrus", carro, che aveva poi assunto il significato di "automobile", come si può vedere anche dalle lingue iberiche; "sweet" da "suavis", sia "dolce" che "soave". Ma la sorpresa più grande mi fu di leggere che in latino "laevum" significava "la parte sinistra"; allora, mi dissi, anche "to left", "a sinistra", ha una derivazione romana, e tutte le lingue antiche, a torto considerate morte, mi apparvero una fonte inesauribile delle cose presenti.
LE NAZIONALI
… però della squadra italiana si poteva dire questo: ogni volta che segnava un gol, molti si chiedevano: "Riusciremo a conservare il vantaggio?", e quando il gol era subìto, con un po' di sgomento: "Chi ci riporterà al pareggio?"…
Queste parole, relative al gioco del foot-ball, si possono leggere a pagina 112 de "Il signore del niente", insieme ad altre su vari momenti sia del calcio, sia del ciclismo.
Oramai sono passati giorni e giorni da una discutibile sconfitta della squadra azzurra in terra d'oriente, ma l'ultima vittoria (sempre nel calcio) dei coreani del sud, può essere la premessa di una nuova visione del modo di vivere mondiale.
Com'è venuto in mente a un calciatore spagnolo di tentare una finta, ai calci di rigore? Bisogna colpire il pallone di struscio, né troppo forte né troppo piano, e facilmente il pallone perde traiettoria e va fuori, o se no è il portiere che se lo ritrova fra le braccia.
Per quanto riguarda il fuori-gioco, principale causa della nostra eliminazione, forse il primo, magari per un solo centimetro, c'era. Così mi è parso in TV. Però io la penso così: piuttosto che vivere e giocare nel dubbio, aboliamo il fallo del fuori-gioco: ognuno sepiazzandojepare e sta all'avversario badare che non segni.
22.06.2002
Al di qua della Corsica
La Capraia e la Gorgona non si vedevano e alle loro spalle l'Elba rimaneva lontana, invisibile. Il disco rosso del sole appariva intatto, fra il cielo ed il mare, con poche nuvole violacee che si lasciavano portare dai venti, in quel breve sfondo d'universo che una stella nana riempiva dei colori di rosa e di oro, poco prima di cambiare emisfero. Pareva ora che toccasse l'acqua, e le onde piano piano ne facevano scendere uno spicchio o una linea, e il sole era arrivato alla sua metà, precisa sulla riga dell'orizzonte marino. Ma sempre di più la terra, col suo moto su se stessa, lo faceva diminuire al di sotto della linea mediana, e ancora di più, finché un solo secondo fu sufficiente a farlo scomparire. Il mare rimaneva circondato dai colori del tramonto, mentre il sole non si vedeva più.
Ugualmente era scorso il tempo nel suo esistere immaginato dalla mente degli uomini, e quando ogni altro animale si era già abbandonato al buio della notte, comparve la dea delle acque, la silenziosa luna. Non soltanto fra le rive dei fiumi o dei laghi, sibbene fra quelle più infinite di un mare, tracciava la sua strada tutt'argentata che si spengeva toccando la nave. Ma era vero? Forse, con un tuffo e nuotando, sarei potuto arrivare sulle sponde di una terra emersa non troppo distante, e invece la luna, con i suoi tremuli raggi, mi ridava l'immensità di quei luoghi.
Meglio, per addormentarsi e fuggire, richiudere gli occhi.
Siamaggiore, 22 agosto 2002
Ostia, 18 luglio 2002
Caro Direttore,
un mese fa, il 18 giugno, fra l'altro anniversario della battaglia di Waterloo, ebbi il piacere di avere pubblicato sul Suo giornale un mio breve scritto intitolato "Left" e, tempo dopo, mi fu consegnata una lettera lasciatami da un lettore. Sarei lieto, e mi sembrerebbe opportuno, vedere anche questa stampata sul Giornale di Ostia, se non altro per rivivere l'atmosfera anglo-latina che mi ispirò.
Una persona inconsueta
Guido Gentile che, tempo addietro, aveva compilato un testo etimologico, ripropone la sua vocazione filologica con "Left" a pagina 9 del 18 giugno. Gentile è una persona colta, ma piena di contrasti. Parla poco e la sua avarizia espressiva farebbe pensare ad esitazioni di linguaggio. Invece è tutto il contrario: quando scrive fa fluire i pensieri in modo ampio e concettoso. E' piuttosto solitario e sembra scontroso. Invece ama l'umanità, la sua storia, le tappe dell'evoluzione e le fissa con osservazioni erudite. Quel "manager" anglosassone che fa derivare dal latino "manibus agere"; e quello "sweet" che sarebbe originato da "suavis" chiariscono subito le sue ricerche e la sua preparazione.
In questa Ostia, che pare una Pompei del 21° secolo, Gentile è un'altra di quelle persone che sarebbe utile a una città rinnovata ed operosa, quale appunto dovrebbe essere Ostia, se diventasse finalmente "Comune".
Filippo Labiso
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