Cavallo
Pazzo ha messo la testa a posto
Per mezzo secolo è stato solo un
sogno. Ora, il faraonico progetto voluto per vendicare la memoria degli indiani
d’America ha tagliato il primo traguardo. Ma è già abbastanza per far
impallidire i visi pallidi
Quando
sarà terminata, entrerà sicuramente nel Guinnes dei Primati come la più grande
scultura del mondo. Per ora, Crazy Horse Memorial, la monumentale opera voluta
dal popolo Sioux per celebrare il leggendario capo Lakota, Cavallo Pazzo, e
come tributo a tutti i nativi nordamericani, è il più imponente work-in
progress sul territori degli States, anzi, dell’intero pianeta. La
colossale scultura tridimensionale che rappresenterà il capo indiano a cavallo,
e una volta completata misurerà 169 metri d’altezza per 192 di lunghezza, sta
lentamente prendendo forma tra le alture delle Black Hills in South Dakota. A
un tiro di schioppo dal ben più celebre Mount Rushmore, il monumento nazionale
da 2,5 milioni di visitatori l’anno con i volti di quattro presidenti Usa
(George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosvelt e Abraham Lincoln)
scolpiti nella roccia. Una vicinanza non del tutto casuale, visto che il Crazy
Horse Memorial viene costruito con l’intento dichiarato di “far sapere all’uomo
bianco che anche l’uomo rosso ha grandi eroi”. O almeno questa fu la consegna
ricevuta dallo scultore Korczak Ziolkowski nel 1948, quando mise mano al
progetto su richiesta di capo Standing Bear. Sono passati più di cinquant’anni,
durante i quali migliaia di cariche di esplosivo hanno sgretolato oltre otto
milioni di tonnellate di granito, sforgiando sul fianco di una collina la testa
del capo indiano, l’unica parte finora completata che da sola misura circa
ventisei metri d’altezza, quanto un palazzo di nove piani, e per dimensioni
potrebbe contenere l’intero blocco dei presidenti di Mount Rushmore. E siamo
solo all’inizio. Le squadre di operai, capitanate dai figli dell’ormai defunto
Ziolkowski, sono ora concentrate sulla testa del cavallo, che dovrebbe misurare
65 metri d’altezza, e sul braccio sinistro di Crazy Horse, lungo quanto un
campo da calcio e teso a indicare un punto imprecisato delle Black Hills.
Infatti il capo indiano è raffigurato nell’atto di replicare alla domanda
derisoria di chi gli chiedeva dove fossero le terre della sua gente: “Le mie
terre sono là, dove sono sepolti i miei morti”. Questa e altre storie sulle
vicende che hanno segnato i primi cinquant’anni della costruzione di Memorial,
si possono ascoltare dalla viva voce Ruth Zilkowski, moglie quasi ottantenne
dello scultore, che sovrintende ai lavori, accoglie i visitatori e, come se non
bastasse, si occupa del reperimento dei fondi. Perché il Crazy Horse Memorial
non è un progetto statale o federale, quindi non gode di alcuna sovvenzione né
può contare sui contributi delle tribù native. È semplicemente di un’iniziativa
privata no-profit, che si avvale di volontari e si autofinanzia con donazioni e
con i biglietti dei visitatori ai quali solo una volta l’anno, in occasione del
Crazy Horse Volksmarch, ogni week-end di giugno, è concesso di salire in cima
alla scultura record.
MARIA GRAZIA CASELLA
(dal “Venerdì di Repubblica”)