21 luglio 2000

 

Sorpresa, la matematica non è una nostra invenzione

Una disciplina nata nella Grecia antica? Un libro mette in crisi questa visione di PIERGIORGIO ODIFREDDI


I testi di storia della filosofia abbondano, ma solo Bertrand Russell ha avuto il pudore di intitolare il suo Storia della filosofia occidentale: quasi tutti gli altri autori, consciamente o no, dimenticano invece l'aggettivo qualificativo. Sembrerebbe solo una innocente svista, ma dietro di essa si nasconde un tacito dogma eurocentrico: che il pensiero sia nato in Grecia e si sia sviluppato in Occidente. E, potremmo aggiungere, che abbia raggiunto il suo apogeo in Germania: ad esempio, Martin Heidegger arrivò a dichiarare, in “Solo un Dio ci può salvare”, che "quando i francesi incominciano a pensare, sono costretti a farlo in tedesco". Di qui l'abitudine dei filosofi continentali, sconcertante e fastidiosa per chiunque creda all'autosufficienza delle varie lingue, di infarcire i propri scritti di vocaboli greci e tedeschi.
Naturalmente la matematica è diversa, se non altro perché una formula rimane sempre la stessa in qualunque modo la si legga: greco, tedesco o francese. O forse no, visto che una delle Massime e riflessioni di Goethe stabilisce che "i matematici sono [tanto per cambiare] come i francesi: non appena si dice loro qualcosa la traducono nel proprio linguaggio, e subito appare diversa".
Certamente la matematica non è diversa dalla filosofia per quanto riguarda le sue storie occidentali, che dimenticano anch'esse l'aggettivo qualificativo, e professano un dogma analogo al precedente: il pensiero matematico è nato in Grecia e si è sviluppato in Occidente.
Al più, si aggiunge, gli arabi l'hanno custodito nei secoli bui, per riconsegnarlo intatto agli Europei quando la luce è ritornata. Naturalmente, tutti sanno che un po' di matematica la conoscevano già babilonesi ed egizi: ma si tratta, come disse il grande storico Morris Kline, di "scarabocchi di bambini che stanno imparando a scrivere". O forse no, come argomenta appassionatamente George Gheverghese Joseph in “C'era una volta un numero” (Il Saggiatore, 2000), un libro che fa piazza pulita dei nostri pregiudizi eurocentrici e dimostra come la vera storia della matematica sia ben altro da quella che ci raccontano coloro che, troppo spesso, non sono né storici né matematici.
Per convincersene basta riandare brevemente ai concetti fondamentali della matematica, quelli che tutti impariamo a scuola, e chiedersi chi li ha scoperti o inventati per primo.
Le cifre cosiddette "arabe" che usiamo per scrivere i numeri sono in realtà indiane, così come lo zero, che non era noto né ai greci né ai romani, ma è stato scoperto indipendentemente dai maya. Tra parentesi, gli indiani indicavano sia lo zero che le variabili con la parola sunya, "vuoto", che si traduce con sifr in arabo: da questa derivano direttamente "cifra", e indirettamente "zero" (attraverso "zefiro").
Le cifre "arabe", introdotte in Europa da Fibonacci da Pisa nel 1202, vi rimasero a lungo avversate: ancora alla fine del secolo XV un'ordinanza del sindaco di Francoforte cercò di impedirne l'uso ufficiale.
I babilonesi furono i primi ad assegnare valori diversi a una cifra a seconda della sua posizione: il cosiddetto sistema posizionale, che fu poi ritrovato da cinesi, indiani e maya. I numeri negativi furono introdotti, per registrare debiti, da indiani e cinesi: questi ultimi indicavano i numeri positivi in rosso e quelli negativi in nero, con un'associazione cromatica che si è tramandata (invertita) fino ai nostri giorni. L'uso della virgola per separare le cifre decimali da quelle intere risale invece agli arabi, seicento anni prima che Simon Stevin e John Napier la reinventassero.
Si può dire che tutte le grandi aree della matematica abbiano avuto origine e sviluppi sostanziali in paesi extraeuropei: l'aritmetica, la geometria, la trigonometria, l'algebra, addirittura i calcoli combinatorio e infinitesimale! La famosa formula di risoluzione dell'equazione di secondo grado, che tutti abbiamo imparato, era già nota ai babilonesi. Idem per il teorema di Pitagora, che certamente porta il nome sbagliato: gli egizi lo conoscevano fin dal 2000 a.C., e fu poi riscoperto indipendentemente da indiani e cinesi.
Il seno di un angolo fu definito dagli indiani, e si chiama così per un errore: la parola araba per "mezza corda", che traduceva correttamente l'originale indiano, ha le stesse consonanti della parola "seno" e confuse un traduttore inesperto, forse distratto dalla sinuosa curva del grafico. Altre due parole che derivano dall'arabo sono algebra e algoritmo: la seconda è la traslitterazione del nome di Al Khwarizmi, bibliotecario del califfato di Bagdad, che scrisse un libro su al-jabr, la scienza della "ricostruzione". Nel calcolo combinatorio, il famoso triangolo di Pascal fu pubblicato in India verso il 1000 e in Cina nel 1303, con tanto di figure.
Quanto al calcolo infinitesimale, trecento anni prima di Newton e Leibniz il matematico indiano Madhava aveva già ottenuto le loro famose serie infinite che calcolano le funzioni trigonometriche e lo sviluppo di pi greco.
Rivisitare i contributi occidentali alla luce della storiografia extraeuropea, sia pure per svelare l'intricata rete di influenze delle varie scuole fra di loro e con la nostra, significa però persistere ancora in un atteggiamento eurocentrico: una vera decostruzione può passare soltanto attraverso il riconoscimento della specificità delle varie tradizioni. Ad esempio, gli egizi moltiplicavano i numeri secondo un sistema binario simile a quello usato oggi dai computer, e i babilonesi adottarono un sistema sessagesimale del quale rimane una traccia nella divisione dell'ora in sessanta minuti, e dei minuti in sessanta secondi. Mentre il numero più grande per il quale i greci avevano un nome era la miriade (diecimila), in India i jain ne avevano uno per la distanza coperta in sei mesi da un dio che viaggia alla velocità di un milione di chilometri in un batter d'occhio (circa un anno luce), e distinguevano addirittura fra vari tipi di infinito. I cinesi, infine, svilupparono un gusto particolare per aspetti numerologici quali i quadrati magici, che sono ancor oggi usati a fini astrologici.
La vera storia della matematica extraeuropea non si limita dunque soltanto a correggere date e nomi associati a nozioni e risultati che sono poi stati riscoperti dalla scuola occidentale, ma permette anche di porne i contributi in prospettiva. In particolare, di comprendere meglio le dicotomie tra matematica deduttiva e computazionale da un lato, e tra matematica pura e applicata dall'altro. Se l'influsso greco ha infatti enfatizzato soprattutto dimostrazioni e teorie, la seconda metà del Novecento ha invece sostanzialmente rivalutato calcoli e applicazioni: la matematica moderna si scopre così meno vicina alla tradizione greca che non a quella extraeuropea.
Forse i tempi sono dunque maturi per permettere finalmente la scrittura di una Storia della matematica degna di questo nome, senza rimozioni e finzioni. Una storia dalla quale la matematica possa emergere per quella che è: l'unica impresa culturale senza confini storici o geografici, che abbraccia l'intera vita dell'umanità. Per dirla con Vedanga Jyotisa, un poeta indiano del 500 a.C. citato da Gheverghese nell'epigrafe del suo libro: "Come la cresta del pavone, come gli occhiali del cobra, così la matematica è la corona della conoscenza".

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