Palazzo Ducale, Urbino

Palazzo Ducale

Cortile di Palazzo Ducale, XV secolo

Arrivando da Bocca Trabaria, che è poi l’ingresso più antico e insieme l’arrivo più suggestivo, sulla cresta di quell’anfiteatro di monti e vallate che è il cuore del Montefeltro, Urbino appare come un miraggio, una specie di "fata morgana". Una sagoma prima indistinta, di colore e sapore quasi medievali, arrampicata sulle due alture; e insieme precipite, spalancata a ventaglio con una gradinata di case che scendono per la valletta, tra le due groppe, come a dare un cordiale benvenuto. Medievale come potrebbero essere Volterra, Cortona, Assisi; eppure diversa, particolare, non sai bene se per il colore, caldo e rosato, o per i profili stessi del suo panorama, costruita come è di vecchi, sbiaditi mattoni. Turrita, maschia, guerriera e insieme accogliente, più aperta, dolce; di quella dolcezza un po scabra e lucida come un ragionamento che è nella stessa natura di questa terra, di questo cielo trasparente e sereno. Una specie di incanto ben calcolato e cosciente ci prende, via via che le masse informi, le torri e i pinnacoli si vanno chiarendo dall’indistinto. L’immagine prima di un qualche castello fortificato tenuto da un tirannello di paese nordico, o quella di un misterioso alcazar da signore orientale, vanno mutando nella visione razionale, chiara, del palazzo più limpido e aperto che il nostro Rinascimento ha lasciato; simbolo esatto di una civiltà e al tempo stesso di un condottiero, di un personaggio che questa civiltà ha cercato di rappresentare con tutto l’impegno possibile. Proiettato al di fuori e insieme legato tenacemente al contesto della città, fino ad identificarsi con essa, il palazzo di Urbino è come l’usbergo di una corazza, ma non invadente, nemica; una corazza da torneo, che è solo struttura geometrica, bella per naturale ed intrinseca forma, simbolo di una battaglia e di una guerra che sono lontane, ormai divenute cristallizzate, come nelle stupende armature di Paolo Uccello. Così lo volle e così lo vedeva venendo da Bocca Trabaria, al ritorno dalle battaglie coi suoi mercenari al soldo ora di una e ora dell’altra delle potenze che in Italia facevano il bello e il cattivo tempo, quel Federico da Montefeltro, che è stato per questa ragione il "personaggio", quello che fu per Firenze Lorenzo il Magnifico. Solo che il Magnifico dirigeva le fila della politica dell’Italia intera senza muoversi dal suo palazzo di Via Larga; mentre Federico il palazzo l’aveva costruito con il suo sudore, con i proventi della sua opera di Capitano di milizie mercenarie, uno dei mezzi più sicuri per arricchire le casse del Principato. L’avvio dei lavori ebbe luogo verso il 1455 in corrispondenza di quella parte del palazzo attuale che dà sulla piazza Rinascimento, un po’ spostato rispetto alla chiesa di San Domenico, con uno sviluppo in lunghezza per metà della lunghezza attuale su questo lato, con sole sei bifore al primo piano, quella zona che è chiamata da un celebre camino che vi si trova, il Palazzetto della Jole. Per dieci anni, fino al 1466, il palazzo ha continuato a svilupparsi in lunghezza verso la piazza e in piccola parte anche in profondità verso la vallata che si apriva sul retro a pochissima distanza, senza un preciso ordine, ma già con una tendenza del tutto nuova rispetto a qualsiasi palazzo del tempo. Si doveva tener conto che sul retro non c’erano strade o altri palazzi importanti, come in qualsiasi altra città, ma il vuoto del panorama. C’è stato comunque un istintivo allungarsi della fabbrica verso un ipotetico cortile che, se non era ancora proggettato poteva comunque essere previsto fin da quel tempo. Ma non si era arrivati, in questa prima fase, a qualcosa di veramente unitario, di nuovo; un bel palazzetto, come tanti altri, con una raffinata decorazione di motivi classici particolarmente eleganti, che tornivano e levigavano figure di putti e di classici nudi nella dolce pietra della Cesana, una cava locale da cui hanno attinto per la decorazione architetti e scultori di tutta la zona. Era un annuncio di Rinascimento nel contesto medievale e serrato della città, ma ancora acerbo ed incerto, come il portale di San Domenico; rappresentava quello che a Firenze, trenta anni prima, aveva rappresentato la porta della Mandorla in Duomo, un punto di passaggio dall’esile eleganza gotica ad una forma e ad una struttura pientamente rinascimentali. Il miracolo del palazzo di Urbino non sta in questa sia pure bella facciata di cotto, con le bifore che sembrano trapiantate da Palazzo Pazzi e da Palazzo Medici a Firenze, di schietta impronta brunelleschiana, con in più un gusto del colore che viene dal materiale locale. La novità, l’unicità di questo palazzo, non viene neppure dal famoso cortile di albertiana e pierfranceschiana chiarezza, cristallinità, come vedremo più avanti, ma dall’essere proiettato poliedricamente verso tutti i lati e soprattutto verso un'altra facciata, opposta a quella che dà sulla strada e sulla piazza, con una proiezione verso la natura ed un suo innesto con la vallata e le colline che fanno da contorno ad Urbino e ne sono la parte integrante. Questa, già come principio, è la vera scoperta, prettamente rinascimentale, dell’architetto che ha progettata la continuazione della fabbrica e l’ha definita nei suoi volumi, nel suo sviluppo di massima. I palazzi di Firenze, la città rinascimentale per definizione, qualunque sia l’architetto, Brunelleschi, Michelozzo, Leon Battista Alberti, o Giuliano da Maiano, hanno tutti facciate rivolte alla strada ed un cortile interno più o meno luminoso, più o meno arioso, sul quale si affacciano gli ambienti; ma con un dominante sguardo introverso, che non ammette contatti esterni, in un solitario e discreto esame di introspezione. Il palazzo di Urbino, ha la facciata sulla piazza, anzi, come vedremo fa genialmente piazza lui stesso, rientrando ad angolo retto come ad accogliere e ad invitare il visitatore; ed ha un cortile magnifico, chiaro e solare, non più spazio chiuso ma a misura di cielo, porzione di cielo libero regolato dall’architettura, con un effetto che ricorda più il peristilio della casa ellenistica che il cortile della casa rinascimentale. Possiede tuttavia una fronte articolata, mossa verso valle che è il suo capolavoro. Una facciata che è una serie di facciate rivolte verso il colle dei Cappuccini e verso la strada che viene dall’Umbria, aperte al panorama e alla vista della natura. Questo miracolo nuovo si deve ad un grande architetto, Luciano Laurana che, incontrato da Federico probabilmente a Pesaro, al servizio di Alessando Sforza, verso il 1465, resterà ad Urbino dal 1468 fino al 1472, a dirigere i lavori del palazzo. Per appoggiare sul vuoto la facciata verso la valle, detta "dei Torricini" dalle due torri che terminano a pinnacolo, per affacciarsi sullo strapiombo della vallata che si spalanca al di là preparò il terreno al di sotto arginò la collina e, con la terra rimossa e le macerie delle costruzioni atterrate per l’ala nuova del palazzo, ricavò quel piazzale di Mercatale, posto all’ingresso della città, che serve a chiunque arrivi da piazza di appoggio, quasi diremmo, con un termine moderno da parcheggio. Occorre pensare che il palazzo di Urbino ha sulla piazza verso San Domenico due soli piani, ma che ne aveva all’origine uno soltanto, con un finale di merlatura, di sapore ancora turrito e medievale; e che sulla parte verso la valle aveva ben quattro altissimi piani, attualmente saliti a cinque con il rialzamento di un piano che il palazzo ha subito, è proprio il caso di dirlo nel XVI secolo. L’altra novità, è bene sottolinearlo, è l’innesto completo, la proiezione verso la natura che serve da originalissimo completamento. Con la costruzione del cortile e degli ambienti che si affacciano su questo, con la realizzazione della facciata dei Torricini e col progetto a valle che viene subito dopo, il quadrato al rientro del giardino pensile, il cortile del Gallo e tutto il procedere della fabbrica in direzione nord-orientale verso la vecchia costruzione del già esistente castellare, fino a inglobarlo, si venne lentamente a realizzare tutto quel complesso di ambienti che formano il piano terreno e il piano nobile del palazzo. A terreno i locali del corpo di guardia, verso l’ingresso, che fu deciso verso la piazza nella rientranza della facciata definita "ad ali", la biblioteca, importantissimo e fondamentale ambiente per un principe quale era il Duca Federico, i locali di rappresentanza da ricevimento, come la sala dei banchetti, le sale annesse di riposo e di trattenimento, proiettate verso la vallata e verso la parte occidentale del cortile; e infine i locali dove era una volta il teatro, altro ambiente che con la biblioteca corredava il palazzo di quel nucleo indispensabile alla atmosfera culturale- intellettuale di un signore del Rinascimento. Al primo piano il grandioso appartamento della Duchessa prospicente la Piazza ad Ali e il singolare Giardino Pensile; l’appartamento del Duca verso la facciata dei Torricini, proteso a guardare, come un falco, la vallata e i monti; e infine gli appartamenti per gli ospiti, sull’altro lato del cortile, egualmente protesi, accanto a quello del Duca, verso la campagna e l'esterno. Un capolavoro di equilibrio è il grande scalone d’onore, quello stupendo percorso che porta verso gli appartamenti superiori, e con il quale si sale senza avere la sensazione di salire, con tutta la possibile dignità ed il riposo che bene si addice a personaggi rinascimentali, uno scalone che si poteva fare all’occorrenza anche a cavallo. In corrispondenza dello scalone, Laurana costruì un immenso ambiente, indispensabile anch’esso alla dignità di un signore quale era e quale appunto voleva rappresentare Federico, che servisse da sala del trono, per ufficiali ricevimenti, come simbolo tangibile ed esempio della grandezza della potenza del padrone. Ebbene, proprio il salone del trono dà la misura della grandezza dell’architetto che non ricorre alla ricca decorazione, al colore, agli ori, agli stucchi o ai trucchi del cattivo gusto, ma si definisce con la sola impostazione grandiosa dello spazio; uno spazio aereo e largo, contenuto appena tra le pareti chiare, alle quali quelle leggerissime volte gonfie di vento sembrano appena appuntate; solo un pensiero di razionale chiarezza ed un comando illuminato, di classica misura, sono accettati e in un certo senso glorificati.

(Laura, Federica)

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