S. APOLLINARE IN CLASSE

Il Vescovo Massimiano, cui spettò la fortuna di legare il suo nome alla consacrazione della chiesa di S. Vitale, consacrerà poco dopo, e più precisamente il 9 maggio del 549, anche la grande imponente basilica di S. Apollinare in Classe. La denominazione "in Classe" deriva da quella del vicino oppidum Classis, che sorse a difesa del famoso Porto fondato da Ottaviano Augusto. E fu proprio fra gli abitanti di questo castrum, in prevalenza mercanti e marinai, che per primo portò l’annuncio della nuova Fede, il conforto della sua parola evangelizzatrice, S. Apollinare, che fu il primo Vescovo di Ravenna. Non sappiamo tuttavia con precisione quando egli visse: è comunque difficile poter risalire all’età apostolica come pretenderebbe la Passio S. Apollinaris, che è un racconto leggendario redatto probabilmente alla fine del V o all’inizio del VI secolo (Mazzotti), se non nel VII (Zattoni, Lanzoni): questo voler risalire ad una sì alta antichità dimostra che l’agiografo, mentre intendeva nobilitare la figura del protovescovo, desiderava nel contempo attribuire maggior lustro alle origini della chiesa della sua città. Ben presto attorno all’oppidum classense sorsero alcune aree sepolcrali, che in parte furono utilizzate anche dai cristiani, come si deduce dai ritrovamenti di diverse iscrizioni funerarie. Accanto, anziché al di sopra d’una di queste aree cimiteriali, come invece vorrebbe il De Rossi, fu innalzata dal Vescovo Ursicino nel secondo quarto del VI secolo la maestosa basilica classicana che sorge quasi solitaria (almeno per il momento) in mezzo alla campagna avendo alle spalle, verso il mare , il verde cupo di quella immensa pineta "spessa e viva" che Dante e Byron hanno cantato. La basilica sorge a quasi cinque Km. dal centro di Ravenna ed è ora lontana dal mare che un tempo le giungeva dappresso. Essa si scorge da lungi non tanto per la imponenza della sua mole, quanto per l’alto e robusto campanile (mt. 37,50) – forse della fine del secolo X – che è reso più snello ed elegante da quella serie ascendente di feritoie, di monofore, di bifore e di trifore, nelle quali ultime furono impiegate bianche colonnine con caratteristici capitelli a stampella. S’addossò il considerevole onere della costruzione della chiesa quello stesso Giuliano Argentario che finanziò la fabbrica di S. Vitale: è per questa ragione che l’edificio risulta costruito con quei mattoni lunghi, rossi e sottili che sono tipici delle costruzioni giulianee. La chiesa, che ha il classico sviluppo basilicale, era in origine preceduta da un quadriportico, essendosi di esso ritrovati dei resti nel secolo scorso. Al corpo centrale della facciata, inquadrata alle estremità da due lisce lesene, si addossa il nartece che a sinistra è affiancato da un alto vano quadrangolare a guisa di torretta, alquanto restaurato: analogo ambiente doveva ergersi anche all’estremità destra, perché di esso si sono potute rintracciare le fondamenta.

Retro della Chiesa

Un ritmico susseguirsi di archeggiature sostenute da lesene dà articolazione ai muri laterali esterni, nei quali si aprono numerose, ampie finestre. L’abside, semicircolare all’interno, è estremamente poligonale: ai suoi lati sorgono il diaconico e la protesi, due vani in forma quadrata cui s’innestano due piccole absidi pentagonali. L’interno (m. 55,58 X 30,30) che ha un respiro largo e solenne, s’impone specialmente per l’ampiezza considerevole della navata mediana, lungo la quale si allineano due file di magnifiche colonne marmoree provenienti dalle officine del Proconneso. Esse hanno la caratteristica d’avere delle venature orizzontali, d’essere sovrapposte a delle basi dadiformi e d’essere sormontate da capitelli a foglie rigonfie dal vento e da altrettanti pulvini. Tutto questo materiale presenta la più omogenea uniformità di stile e di misure, cosicché non c’è dubbio che sia stato espressamente ordinato per la costruzione della chiesa. I muri laterali, su ciascuno dei quali anticamente s’aprivano tre porte, si presentano oggi spogli e disadorni nella loro cortina laterizia, ma un tempo erano rivestiti di specchianti superfici di marmo, perché Andrea Agnello scrive nel suo Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis che nessuna chiesa in Italia era altrettanto ricca "in lapidibus praeciosis". Questi marmi furono in buona parte utilizzati nella prima metà del Quattrocento allorché Sigismondo Pandolfo Malatesta li richiese e ottenne per adornare il Tempio riminese che da lui prese il nome. Il presbiterio della chiesa risulta oggi notevolmente sopraelevato: ciò dipende dall’aggiunta della cripta, foggiata ad anello semicircolare con corridoio centrale, che secondo alcuni sarebbe stata eretta nel VII secolo, secondo altri, verso la fine del IX e secondo altri ancora, nella seconda metà del XII. E’ ad ogni modo certo che all’epoca dell’erezione della basilica al posto di questo alto presbiterio c’era, avanzantesi verso il centro dell’edificio, precisamente si all’altezza delle terzultime colonne a partire dal fondo, il "bema", cioè lo spazio riservato al clero. Infatti le sue fondamenta - su cui dovettero appoggiare i plutei, le transenne ed i pilastrini marmorei destinati a limitarlo ed a recintarlo - sono ritornate alla luce nel 1953 a circa 30cm al di sotto del pavimento attuale in occasione di alcuni saggi esplorativi. Dell’antico pavimento musivo che doveva ricoprire, simile ad un immenso tappeto, il vasto ambiente, rimangono solo alcuni avanzi in fondo alla navata sinistra ed all’inizio della destra: qui un tratto di mosaico, ornato con disegni geometrici, conserva un’iscrizione che ricorda quanta superficie di esso fu fatta eseguire a proprie spese da una certa "Gaudentia" e da un certo "felix" insieme con altri oblatori. Un altro piccolo tratto, ritrovato nel 1953, al di sotto del pavimento della navata centrale, è stato addossato alla parete destra della chiesa. Ma ciò che nella basilica di S. Apollinare in Classe attrae di più l’attenzione di chi entra nel tempio è senz’altro l’ampia distesa delle superfici musive che, a guisa d’un sontuoso manto policromo, rivestono l’arco trionfale e la conca dell’abside. Non tutta quanta la decorazione in mosaico appartiene però allo stesso periodo. La parte superiore dell’arco trionfale secondo alcuni studiosi risalirebbe al VII secolo, mentre secondo altri sarebbe da riportare al secolo IX. Nel registro superiore, che si stende orizzontalmente per tutta quanta la larghezza dell’arco, è raffigurato Cristo, con gli occhi sbarrati e la fronte corrugata, entro un medaglione circolare. Ai suoi lati, in mezzo ad un mare di nubi stilizzate, stanno i simboli alti degli Evangelisti: l’Aquila, l’Uomo alato, il Leone e il Vitello. Nella figura di quest’ultimo è da notare come il muso sia stato realizzato perfettamente di profilo, ma come su di esso le narici appaiano in posizione perfettamente frontale. La zona sottostante a questa, che al centro va sensibilmente riducendosi a causa del giro dell’arco trionfale, presenta alle estremità la raffigurazione delle due simboliche città di Gerusalemme e Betlemme, dalle mura adorne di pietre preziose. Dalle loro porte escono dodici agnelli, sei da una parte e sei dall’altra, che sembrano dirigersi verso la immagine di Cristo che compare nel registro soprastante: siamo indubbiamente di fronte alla raffigurazione simbolica dei dodici Apostoli. Nei rinfianchi dell’arco sono due palme che spiccano su di un fondo bleu scuro: Questa zona è da assegnare al VI secolo, come pure alla stessa epoca possiamo far risalire le sottostanti figure degli Arcangeli Gabriele e Michele, che quale milizia celeste, portano il labaro con la lode a Dio tre volte Santo. Più in basso si trovano le figure del XII secolo di S. Matteo e, forse, di S. Luca.

Tutta la decorazione della conca absidale è da riferire a circa la metà del VI secolo: qui la composizione, basata sull’accordo di pochi, ma freschi colori, si articola in due zone. In alto, in mezzo ad un cielo d’oro solcato da tante piccole nubi, campeggia un grande disco gemmato che nel suo interno contiene una croce tempestata di pietre preziose che, a sua volta, mostra all’incrocio dei bracci un medaglione con la testa di Cristo. Il braccio superiore della croce è sormontato dalla parola greca IXOYC (Significante pesce ed alludente, a causa dell’acrostico formato dalle rispettive lettere iniziali di cinque parole greche a Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore). Sotto al piede della croce si leggono invece le parole: Salus Mundi. Il grande disco è affiancato dalle figure di Elia e Mosè che emergono dalle nubi: la loro presenza ci testimonia in maniera quanto mai chiara che l’artista con questa composizione ha voluto alludere alla Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, alla quale assistettero anche gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, i quali si debbono riconoscere simbolicamente effigiati in quei tre candidi agnelli che stanno sì nella zona inferiore, ma che tengono il muso diretto verso la croce gemmata. In questa zona più bassa si allarga una verde valle fiorita, resa varia dall’emergere di piccole rocce scure orlate di bianco e più lieta dal rigoglio di erbe, di cespugli e di piante, fra le quali si può scorgere anche il pino, l’albero che oggi ancora contraddistingue il paesaggio attorno a Ravenna. Al centro di questo paesaggio, che ha per fondo un verde tenero, s’erge grandiosa, e solenne la figura di S. Apollinare, il quale al di sopra della sua bianca tunica porta la casula sacerdotale adorna di tante api d’oro, simbolo d’eloquenza. Il Protovescovo è in atteggiamento d’orante: egli cioè è ritratto nel momento di innalzare le sue preghiere a Dio perché conceda la grazia celeste ai fedeli affidati alla sua cura che qui appaiono sotto l’aspetto di quei dodici bianchi agnelli che gli fanno corona. Pure contemporanei della basilica sono le figure dei Vescovi Severo, Ecclesio, Orso ed Ursicino che compaiono, rivestiti dei loro abiti sacri, negli interspazi delle finestre. Di poco più d’un secolo dopo sono invece i due pannelli che si trovano ai lati dell’abside: a destra sono raffigurati, con una composizione non certo priva di equilibrio, i sacrifici di Abele, di Abramo e di Melchisedech, ma i colori qui sono deboli e fiacchi; a sinistra compaiono l’Imperatore Costantino IV Pogonato con i fratelli Eraclio e Tiberio. Assai importanti sono i sarcofagi che si allineano lungo i muri perimetrali, si tratta di sarcofagi del V, VI, VII e VIII secolo, e pertanto passandoli in rassegna ci si può fare una idea dello sviluppo della scultura per tutto questo periodo. Notevole è il ciborio marmoreo che trovasi in fondo alla navata sinistra: dall’epigrafe che corre lungo il suo bordo superiore s’apprende che esso fu eretto all’inizio del nono secolo in onore del terzo Vescovo di Ravenna S. Eleucadio, dalla chiesa dedicata al quale nel territorio di Classe essa proviene. Sotto a questo ciborio sono applicate al muro due tavolette marmoree raffiguranti l’Annunciazione: in una campeggia l’Angelo che avanza con il baculo viatorio protendendo la destra nel gesto della parola: nell’altra si scorge la Vergine seduta nell’atto di filare la porpora. Questi due piccoli pannelli sono assegnati al decimo secolo.

( Alessandra, Rita)

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